giovedì 11 aprile 2013

Quello che l’artrite mi ha tolto (ma c’è anche qualcosa che mi sta dando)...



Anche stamattina, ahimè, mi sono svegliata con le mani effetto “omino michelin”.
Ormai è da un mese che, giorno più- giorno meno, passo le prime ore del mattino con questa fastidiosa sensazione di dita gonfie, rigide, rosse e calde, ma la cosa che mi urta di più, paradossalmente, non è il dolore fisico, bensì lo sguardo incuriosito e malizioso di certe colleghe, che continuano a fissare le mie povere mani, chiedendomi come mai non porti più la fede.



Sul lavoro non tutti sanno ciò che mi sta capitando. Svolgo la mia attività in una grande azienda, di conseguenza ci si conosce più o meno tutti di vista ma in maniera molto superficiale.
All’interno del mio ufficio ho, però, la fortuna di lavorare in un team molto affiatato e, soprattutto, sono l’unica donna in un gruppo di uomini che, in quanto tali (uomini), non sono acuti osservatori e non hanno mai fatto troppo caso ai miei acciacchi. Da quando ho “conosciuto” l’artrite, circa un anno fa, i giorni in cui mi sono assentata per malattia si contano sulle dita di una mano (gonfia ahimè), di conseguenza la mia patologia non mi ha tolto nulla sotto il profilo lavorativo.
Se dovessi trarre un bilancio di questi ultimi 12 mesi, tuttavia, ci sono tante cose che l’artrite mi ha tolto, anche se, spero, non definitivamente. Non voglio, però, che questo blog diventi un’occasione per piangersi addosso, quindi mi occuperò delle “limitazioni sostenibili”, che magari possano strappare un sorriso (nonostante tutto):

- gli anelli: l’ho già scritto e probabilmente diventerò noiosa nel ripeterlo, ma sono davvero dispiaciuta per le mie mani. Ho sempre portato i “miei” anelli: il solitario di fidanzamento, la fede –ovviamente-, una fedina a riviera per l’anniversario e un anello d’argento preso in viaggio di nozze. Sono gioielli molto semplici, che non danno nell’occhio, ma non sono mai uscita di casa senza indossarli, per cui capirete quanto la cosa mi faccia avvilire. Lo so, gli anelli si possono allargare, ma continuo a coltivare la speranza che le dita tornino come prima, o che almeno scompaia il gonfiore, per cui ora sono custoditi nel portagioie, in attesa.
Ormai il concetto chiave di questo periodo sta diventando l’attesa: ho atteso che la terapia facesse effetto, ho atteso che il reumatologo desse l’ok a interrompere il Methotrexate, sto attendendo che passino questi mesi di disintossicazione dal farmaco e -nel contempo- che inizi a “funzionare” il nuovo medicinale (Plaquenil)… insomma, considerato che l’unica attesa alla quale aspiro è quella cosiddetta “dolce”, direi che i miei nervi stanno facendo un buon allenamento.


- enogastronomia: anche qui posso dire che mi sto preparando in vista di un’eventuale gravidanza. Da quando ho iniziato il MTX ho, infatti, eliminato l’alcool dalla mia “dieta”. Ora, non che io fossi un’alcolizzata, ma non mi sono mai tirata indietro davanti ad un aperitivo e, come ogni abitante del nord est che si rispetti, amo il buon vino.
Va premesso un fatto: l’alcool non è incompatibile, in assoluto, con la terapia, ma, a titolo precauzionale, ho voluto evitare di correre il rischio di intossicare ulteriormente il fegato e, così, mi sono autocensurata. Anche qui, come nel caso degli anelli, so che si tratta di piccole cose, ma in questi mesi mi è capitato più volte di guardare con invidia boccali di birra ghiacciata davanti ad una grigliata di carne o profumatissimi calici di sauvignon davanti ad un freschissimo branzino. So che un bicchiere è tranquillamente consentito, ma mi conosco: un bicchiere, talvolta, può essere una sofferenza quando ne desideri un secondo.
La cosa positiva? Sono di colpo diventata l’amica più popolare della comitiva, perché sono sempre disponibile a guidare qualora gli amici abbiano alzato troppo il gomito!
Anche sul cibo, poi, mi sono dovuta limitare: ormai è da un anno che, seppur in maniera discontinua, assumo cortisone e vivo nel terrore di gonfiarmi come una palla. Insomma: artritica, con i capelli rovinati, le mani gonfie… ci manca pure la cellulite! Ogni giorno trangugio almeno 2 litri d’acqua, in metà dei quali aggiungo uno strano intruglio che ha creato la mia farmacista, composto da: betulla, tarassaco, pilosella, carciofo e altre schifezze amare. Dice che dovrebbe aiutarmi a smaltire la ritenzione idrica, di sicuro mi fa fare tanta (ma tanta, tanta, tanta) “plin pin”, quindi penso funzioni, e lo consiglio a tutte.

Ho cercato anche di seguire una dieta disinfiammante apposita per l’artrite, se vi interessa potete cercarla su google come “McDougall Program”. Sono rimasta davvero affascinata da questi racconti di pazienti che hanno tenuto a bada l’artrite con l’alimentazione, e per qualche giorno ci ho provato anche io. Poi ho capito che non potevo flagellarmi così anche su questo, e mi sono andata a mangiare una pizza.
Secondo il dott. McDougall un’alimentazione priva di cereali, latticini e proteine di origine animale dovrebbe eliminare l’AR: di conseguenza gli unici alimenti consentiti sarebbero frutta e verdura, preferibilmente consumati a crudo.
Dopo 3 giorni in cui mi sono alimentata come una capretta ho capito che il vero problema sarebbe stato non l’artrite, bensì sopravvivere a questa dieta. Avete presente quella pubblicità in cui una ragazza non ci vede più dalla fame? Ecco, moltiplicatela al quadrato e avrete un’idea di come stavo con quell’alimentazione: in un continuo buco nero.
Stimo davvero chi ce l’ha fatta, ma, per quanto mi riguarda, cerco solo di stare attenta alle proteine animali e ai prodotti da forno e di mangiare più verdura. Di più, davvero, non posso fare.
Per quanto possa apparire assurdo, in quest’anno l’artrite mi ha dato anche qualcosa.
Scriveva Oscar Wild nel “De Profundis” “Suffering- curious as it may sound to you- is the means by which we exist, because it is the only means by which we become conscious of existing” (La sofferenza - per quanto ti possa apparire strano - è il nostro modo di esistere, perché è l'unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita).
Un anno fa, prima di fare conoscenza con la patologia, ero una persona decisamente diversa.
Abituata, infatti, ad ottenere qualsiasi cosa volessi, mi sono trovata a confrontarmi con qualcosa che non ho potuto controllare e, sotto molti punti di vista, il mio carattere ne è uscito migliorato. Come ho scritto, ho imparato a diventare paziente, a non poter avere tutto e subito. Ho imparato, poi, a chiedere aiuto, anche se ancora faccio difficoltà a delegare.
Ma soprattutto ho capito di avere accanto tante persone speciali e, nel contempo, ho scoperto (e poi “eliminato”) chi mi frequentava solo per interesse. Come si suol dire: grazie all’artrite ho “tagliato i rami secchi”.
E, credetemi, questa è stata indubbiamente la migliore terapia.

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